CAMBIARE O NON CAMBIARE?

cambiare il proprio carattere

scritto da Dr. Alessio Congiu

La fatica del cambiare è invisibile agli occhi di chi ci guarda. Per gli altri siamo sempre uguali, non cambiamo mai.

Delle volte però è pur vero che non cambiamo, almeno in apparenza. Cambiano i nostri ragionamenti il nostro modo di pensare, di vivere internamente alcune emozioni; tutte cose che non si vedono dall’esterno.

Come poter pretendere dunque che gli altri vedano e capiscano la fatica di un cambiamento che rimane a loro nascosto?

Eppure quasi lo pretendiamo. Lo desideriamo al punto da demoralizzarci quando un simile riconoscimento ci viene come negato. Eh quanta rabbia, oh si, quanta rabbia che viviamo.

Dopotutto come potremmo non viverla?

Come poter non arrabbiarsi quando la persona da cui vorremmo essere più apprezzati e più sostenuti ci nega la vista, voltandoci le spalle nel momento di maggiore bisogno?

Come se vedesse, come se capisse…

Delle volte la rabbia è proprio questo: un modo per poterci tenere stretta un’idea, un pensiero. Il credere che l’altro sia realmente in grado di vederci, di capirci, di accudirci.

Non è su questo, in fondo, ciò su cui si fonda un rapporto?

<< Ho bisogno di credere che qualcosa di straordinario sia possibile >> (Dal film “A beautiful mind”).

Ma delle volte l’altro non vede, non capisce. Ci osserva e vede un film già noto, di cui si conosce a menadito la trama e le battute. Uno sguardo che non cambia di fronte a ciò che già è cambiato, uno sguardo che rimane ancorato attorno ad un pensiero, ad un’immagine. L’immagine di chi eravamo e ormai non siamo più.

Eh quanta colpa, oh si, quanta colpa che viviamo.

Per andare avanti senza voltarsi, lasciando indietro chi con il suo sguardo ci vorrebbe bruco anziché farfalla.

cambiamento verona

C’è un fondo di egoismo nel non voler vedere i mutamenti che pur si mostrano alla nostra vista. Un desiderio che le cose si cristallizzino, rimanendo così com’erano un tempo, come sono sempre state. Ma dopo ogni inverno, una nuova primavera, e poi l’estate, e così via.

Fin quando si può attendere che l’altro veda, capisca ciò che in passato vedeva e che ora non vuol più vedere?

Come se potessimo scegliere quanto attendere, quanto ritardare il cambiamento…

Delle volte la colpa è proprio questo: un modo per poterci tenere stretta un’idea, un pensiero. Il credere di avere più potere sugli eventi di quanto invero non abbiamo. Non è su questo, in fondo, ciò su cui si fonda il senso del dovere?

<< Qual è il primo dovere dell’uomo? La risposta è breve: essere se stesso >> (Henrik Ibsen)

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Delle volte però è pur vero che non cambiamo, almeno in apparenza. Cambiano i nostri ragionamenti il nostro modo di pensare, di vivere internamente alcune emozioni; tutte cose che non si vedono dall’esterno.

Come poter pretendere dunque che gli altri vedano e capiscano la fatica di un cambiamento che rimane a loro nascosto?

Eppure quasi lo pretendiamo. Lo desideriamo al punto da demoralizzarci quando un simile riconoscimento ci viene come negato. Eh quanta rabbia, oh si, quanta rabbia che viviamo.

Dopotutto come potremmo non viverla?

Come poter non arrabbiarsi quando la persona da cui vorremmo essere più apprezzati e più sostenuti ci nega la vista, voltandoci le spalle nel momento di maggiore bisogno?

Come se vedesse, come se capisse…

Delle volte la rabbia è proprio questo: un modo per poterci tenere stretta un’idea, un pensiero. Il credere che l’altro sia realmente in grado di vederci, di capirci, di accudirci.

Non è su questo, in fondo, ciò su cui si fonda un rapporto?

<< Ho bisogno di credere che qualcosa di straordinario sia possibile >> (Dal film “A beautiful mind”).

Ma delle volte l’altro non vede, non capisce. Ci osserva e vede un film già noto, di cui si conosce a menadito la trama e le battute. Uno sguardo che non cambia di fronte a ciò che già è cambiato, uno sguardo che rimane ancorato attorno ad un pensiero, ad un’immagine. L’immagine di chi eravamo e ormai non siamo più.

Eh quanta colpa, oh si, quanta colpa che viviamo.

Per andare avanti senza voltarsi, lasciando indietro chi con il suo sguardo ci vorrebbe bruco anziché farfalla.

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C’è un fondo di egoismo nel non voler vedere i mutamenti che pur si mostrano alla nostra vista. Un desiderio che le cose si cristallizzino, rimanendo così com’erano un tempo, come sono sempre state. Ma dopo ogni inverno, una nuova primavera, e poi l’estate, e così via.

Fin quando si può attendere che l’altro veda, capisca ciò che in passato vedeva e che ora non vuol più vedere?

Come se potessimo scegliere quanto attendere, quanto ritardare il cambiamento…

Delle volte la colpa è proprio questo: un modo per poterci tenere stretta un’idea, un pensiero. Il credere di avere più potere sugli eventi di quanto invero non abbiamo. Non è su questo, in fondo, ciò su cui si fonda il senso del dovere?

<< Qual è il primo dovere dell’uomo? La risposta è breve: essere se stesso >> (Henrik Ibsen)

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